Tutta la verità sul “famigerato” olio nella nostra intervista esclusiva con la giornalista Mariangela Molinari, autrice di un approfondito libro sull’argomento

La redazione

Si è fatto un gran parlare, soprattutto l’anno scorso (ma i relativi volantini sono ancora affissi sulle mura della nostra scuola), dell’olio di palma e dei problemi connessi al suo uso esasperato (ricordiamo infatti che tale olio rappresenta, da solo, oltre il 32% della produzione mondiale di grassi).
Problemi che andrebbero dalle patologie alimentari ai danni da disboscamento e deforestazione, dall’abbattimento di molte specie di oranghi all’inquinamento atmosferico: una seria minaccia per un intero ecosistema, quello dei paesi produttori, e non solo.
D’altro canto, però, molte voci si sono levate anche in favore di quest’olio, tale che non è facile avere un’idea netta in proposito. Abbiamo deciso pertanto di rivolgere alcune domande alla giornalista e scrittrice Mariangela Molinari, autrice del recente libro, edito da Terre di Mezzo, “Olio di palma – La verità sull’ingrediente che ha invaso le nostre tavole”.

 
L’olio di palma è oggi il condimento più consumato al mondo, presente un po’ in tutti i cibi (e non solo), ma è veramente così dannoso per la salute? Oppure addirittura possiede virtù benefiche?


La questione si lascia riassumere in due punti: innanzitutto il fatto che, per il suo contenuto di acidi grassi saturi, il palma si avvicina più al burro, quindi a un grasso di origine animale, che ad altri oli vegetali (rispetto al burro, però, non contiene colesterolo). In secondo luogo la sua diffusione e presenza in un gran numero di prodotti diversi accresce la possibilità per il consumatore di assumere una quantità di acidi grassi saturi superiori alle dosi raccomandate (il 10% dell’apporto calorico quotidiano).

La faccenda, però, non si può liquidare con un semplice “fa bene” o “fa male”, ma è molto più complessa. Primo: tutti abbiamo bisogno di assumere un certo quantitativo di grassi, non solo perché sono un’importante fonte di energia, ma anche perché agevolano l’assorbimento delle vitamine A, D, E e K, senza dimenticare che alcuni acidi grassi sono direttamente coinvolti nella composizione delle membrane cellulari e sono precursori di molecole importanti: per esempio, ricordiamo che fabbrichiamo gli estrogeni a partire dal colesterolo. Secondo: è una questione di equilibrio e misura. Qualunque tipo di considerazione, dunque, deve partire da una visione complessiva del regime alimentare. Come mi ha spiegato la tecnologa alimentare Maria Caboni, docente coordinatrice del Corso di Laurea in Tecnologie Alimentari all’università di Bologna, “A dimostrazione di come nulla debba essere eliminato a priori e tutto, se nelle giuste proporzioni, contribuisca al nostro benessere, riflettiamo anche sul fatto che il grasso del latte, il primo che assumiamo nella nostra vita, è costituito per due terzi da acidi grassi saturi. Il loro apporto calorico, dunque, è indispensabile, per quanto nelle giuste quantità. Alla fine, tutto fa bene e tutto fa male: dipende dall’uso che se ne fa e dallo stile di vita complessivo, che ha un forte influsso sullo stesso metabolismo dei lipidi”.

E, aggiungiamo, dipende dalla fase della vita che stiamo attraversando. Anche la nutrizionista Laura Rossi, che ho interpellato per il libro, ha sottolineato che bisogna prestare attenzione a tutti gli alimenti che contengono acidi grassi saturi, quindi non solo all’olio di palma, ma anche a carni, latte, prodotti caseari e salumi. Inoltre, dal momento che negli alimenti non è presente un solo componente e nutriente, tutti vanno considerati in un’ottica complessiva.

Senza contare che sostituire, in un prodotto industriale, l’olio di palma con olio extravergine di oliva potrebbe comportare la necessità di correggere sapore o consistenza finale attraverso il ricorso ad additivi, che, in certi casi, potrebbero rivelarsi ben più dannosi.

 
Esiste davvero un rischio deforestazione e distruzione di specie animali oppure si tratta di una forzatura?

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2007 le piantagioni di palma da olio sarebbero la causa principale della deforestazione sia in Indonesia che in Malesia, i due principali produttori. Greenpeace riporta che tra il 2011 e il 2013 il 40% circa della deforestazione è stato condotto in particolare da concessioni a piantagioni di palme da olio. Per quanto riguarda, poi, la azioni di deforestazione avvenute nelle zone per le quali non è stata data concessione di utilizzo, le analisi del Center for International Forestry Research (Cifor) di Riau mostrano che in misura importante sono condotte dallo sviluppo dell’olio di palma, e che solo nel biennio 2011-2013 gli oranghi hanno perso il 4% del loro habitat.

Quindi effettivamente il problema ambientale è da affrontare. La giusta via, secondo Greenpeace e WWF, sarebbe la coltivazione sostenibile di palme da olio, con tutto ciò che significa sostenibilità: cessazione della deforestazione, non uso di chimica, condizioni di lavoro etiche per i lavoratori delle zone coinvolte, per le quali la produzione di olio è una concreta opportunità di lotta alla povertà.

A proposito di deforestazione, poi, va fatta un’importantissima precisazione: rispetto a tutte le altre colture oleaginose, la palma da olio è quella con la più elevata resa per ettaro: di dieci volte superiore, per esempio, a quella dell’ulivo. Questo significa che per produrre lo stesso quantitativo di olio viene utilizzata una superficie agricola complessiva fino a dieci volte inferiore. È sbagliato, anche in questo caso, demonizzare la palma da olio più di altre monocolture. Il problema è che mentre alcune colture, come il girasole, possono essere previste in vasti areali del pianeta, la palma da olio necessita di specifiche condizioni climatiche, che la rendono coltivabile solo in alcune fasce tropicali.

L’olio di palma è realmente una fonte così marcata di inquinamento atmosferico o no?


Non è l’olio di palma a essere fonte di inquinamento, ma gli incendi di torbiere, causa di ingenti emissioni in atmosfera di gas a effetto serra, appiccati per far posto alla coltivazione della palma. Quindi, ancora una volta, il problema non sono l’olio di palma e la palma da olio, ma come la coltivazione è stata condotta finora. Se, come auspichiamo tutti  insieme a Greenpeace e Wwf, verranno avviate politiche di coltivazione sostenibile che portano a un utilizzo corretto del suolo, evitando ulteriori deforestazioni e incendi, tutto questo decadrà. Purtroppo c’è ancora molta strada da fare su questo fronte.


Come mai viene adoperato così di frequente dall’industria alimentare, è solamente per motivi economici oppure è anche per le sue doti organolettiche?


Spesso si dice che le aziende alimentari utilizzano l’olio di palma soprattutto perché è economico, ma in realtà possiede proprietà fisiche e organolettiche uniche: ha un’elevata stabilità nel tempo e prolunga, quindi, la durata del prodotto senza irrancidire e riducendo, così, il food waste; ha sapore e odore neutri, che non coprono quelli degli altri ingredienti; è stabile anche a temperature di cottura molto elevate e le sue proprietà fisiche conferiscono a un’ampia gamma di alimenti una struttura apprezzata e differenziata (cremosità, croccantezza ecc.). Inoltre, è allo stato solido o semisolido già a temperatura ambiente, quindi non serve l’idrogenazione (il processo di realizzazione delle margarine) che produrrebbe i dannosissimi acidi grassi trans. Infine, il suo basso costo non è dovuto a una qualità scadente ma è riconducibile all’elevata resa della coltura da cui deriva.


Secondo lei, l’approccio che il mondo dell’informazione e la società civile hanno avuto al problema è stato più di stampo ideologico o scientifico?


Direi più di stampo ideologico. Scrivendo il libro mi sono ancor più resa conto che sussiste la tendenza a demonizzare un singolo alimento piuttosto che un altro. Questo porta a una visione ristretta e per forza di cose miope. È sempre buona cosa, in questo come in altri ambiti, avere una prospettiva più ampia. Ed era proprio questo l’intento del libro: porre domande a chi avesse la competenza per rispondere scientificamente, e poter mettere a fuoco la questione con più obiettività. Non possiamo concentrarci su un singolo alimento della dieta, senza considerare lo stile alimentare e di vita nel suo complesso. È questo: lo stile complessivo, il giusto equilibrio e la misura a farci stare bene o a causarci problemi. Così come non possiamo focalizzarci su una singola caratteristica di un alimento, senza considerare le sue interazioni con gli altri. Pensare che mangiare ogni giorno un tot di biscotti che contengono burro sia più salutare che mangiarne la stessa quantità contenente olio di palma è davvero un grave errore: non è comunque corretto per quanto riguarda l’assunzione di grassi. E poi non è saggio concentrarsi su un solo ingrediente. Bisogna tener conto anche di ogni altro: per esempio, nel caso dei biscotti, anche degli zuccheri.


Per concludere, quale idea si è fatta personalmente della questione? Olio di palma sì o no? Comprerebbe i cibi che lo contengono oppure no?

Leggo sempre attentamente le etichette e prima di scrivere il libro riponevo immediatamente sugli scaffali i prodotti in cui era presente olio di palma. Oggi non sono più così rigida. Comprerei e compro cibi che lo contengono, previa attenta lettura dell’etichetta, perché il problema non è il palma in sé ma la formulazione complessiva del prodotto.

Devo confidarvi che quando ho iniziato a scrivere il libro ero convinta che tutti gli interpellati (nutrizionisti, medici, oncologi, tecnologi alimentari ecc.) mi avrebbero parlato malissimo di questo olio, proprio per quanto era giunto alle mie orecchie di consumatrice prima ancora che di giornalista. A ogni intervista, invece, crescevano lo stupore di quanto la faccenda fosse complessa e lo sconforto di quanto l’informazione sia spesso parziale.

La questione dell’olio di palma credo sia un esempio della grande responsabilità che noi giornalisti abbiamo nei confronti dei consumatori. Certa informazione allarmistica e senza il confronto e conforto di più fonti scientifiche è solo disinformazione.

Ed è interessante a tal proposito una piccola cronistoria di come si sia giunti all’utilizzo dell’olio di palma. Non dimentichiamo, infatti, che la massiccia diffusione di questo ingrediente in ambito alimentare è avvenuta a seguito della messa al bando delle margarine, ricche di acidi grassi trans, estremamente dannosi per la nostra salute, e invece diffuse con grande enfasi negli anni 60-70 per ridurre il ricorso al burro, a quel tempo demonizzato quale principale causa dell’innalzamento del colesterolo. Curioso, poi, che proprio il burro sia stato riabilitato con tutti gli onori da una copertina del Time del 2014, in cui campeggiava sotto forma di invitante ricciolo, sovrastante un titolo che prometteva di spiegarne tutte le virtù. Fu proprio fra i possibili sostituti degli acidi grassi trans derivati dal processo di idrogenazione con cui è prodotta la margarina, dunque, che l’olio di palma si distinse da subito come una delle scelte più azzeccate per l’industria