Da sempre l’uomo si è posto questa domanda, che torna oggi d’attualità con la scoperta di nuovi sistemi solari come Trappist-1

di Flavio Salvati

Da sempre, l’uomo si è interrogato sulla possibilità che la vita sia presente altrove nell’universo. Dalle osservazioni astronomiche degli antichi Sumeri, dei Babilonesi e degli Egizi, dalle argomentazioni filosofiche nell’antica Grecia e dalle rivoluzionarie teorie di Giordano Bruno, il tema sull’esistenza di altre forme di vita nell’universo è arrivato ai nostri giorni.

Oggi, il dibattito travalica il campo della singola scienza e richiede da parte degli scienziati un approccio multidisciplinare e la condivisione degli studi, delle conoscenze e delle esperienze acquisite a beneficio della conoscenza dell’intera umanità. Su tale premessa sono stati sviluppati innumerevoli programmi e sono state condotte numerose missioni spaziali che hanno spesso rivoluzionato le nostre conoscenze sulla possibilità di vita nell’universo ponendoci nuove sfide e nuove frontiere.

Ma cosa intendiamo per “vita”? Può apparire un esercizio retorico, ma la risposta al quesito risulta fondamentale per poter delimitare il perimetro dell’attività della nostra ricerca. Noi conosciamo solo un tipo di vita, quella presente sulla Terra, che si basa sul carbonio, un elemento che può dar origine a molecole complesse e stabili, benché non possiamo escludere a priori l’esistenza di altre forme di vita basate, ad esempio, sul silicio in grado di svilupparsi in ambienti differenti da quelli terrestri.

Se accettiamo il modello terrestre tra i possibili modelli di sviluppo della vita, dobbiamo partire dalle peculiarità della Terra e ricercare pianeti simili al nostro nell’universo. Se infatti, si considera che la vita, come la conosciamo sulla Terra, si è potuta sviluppare grazie alla presenza di acqua, energia ed elementi biogeni (idrogeno, ossigeno azoto, carbonio, fosforo e pochi altri), è logico supporre che anche su altri pianeti situati nella zona abitabile di un sistema planetario (fascia circumstellare abitabile)[1], possano svilupparsi forme di vita basate sulla medesima evoluzione chimica e biologica.

Ma quali sono gli elementi condizionanti per poter ipotizzare l’esistenza, lo sviluppo di forme di vita su un pianeta o semplicemente che possa rivelarsi abitabile da parte dell’uomo? I principali fattori condizionanti sono sicuramente: le caratteristiche spettrali e strutturali della stella del sistema interessato, la distanza del pianeta da essa in relazione alla sua energia radiante, l’esistenza di un satellite di dimensioni sufficienti a stabilizzare il moto di precessione del pianeta, una massa planetaria idonea a creare una forza di attrazione gravitazionale sufficiente a trattenere l’atmosfera (che contribuisce a conservare il calore, a proteggere la superficie da radiazioni nocive e dalle meteoriti fornendo le sostanze chimiche necessarie allo sviluppo della vita), un adeguato magnetismo a protezione dalla radiazione cosmica galattica e dal vento interstellare e, infine, la fondamentale presenza di acqua la cui esistenza presuppone condizioni ambientali (temperatura e pressioni) specifiche.

La ricerca di pianeti extrasolari è un’entusiasmante area di ricerca, ed è condotta dagli scienziati con l’aiuto di numerosi telescopi distribuiti sulla Terra e nello spazio come i telescopi spaziali  Kepler, Spitzer ed Hubble che, utilizzando strumenti come l’Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph (UVES) e l’elevata precisione velocità radiale Planet Searcher (HARPS), consentono di rilevare le variazione prodotte dall’effetto Doppler nello spettro di irradiazione di una stella.

Oggi, grazie al lavoro degli scienziati, sappiamo che quasi una stella su cinque possiede pianeti che orbitano nella cosiddetta fascia di abitabilità (quell’intervallo di distanze da una stella entro il quale un pianeta di tipo roccioso con un’atmosfera può potenzialmente avere acqua allo stato liquido sulla superficie). In termini astronomici questo non significa che tali pianeti ospitino necessariamente la vita, ma che ci potrebbero essere condizioni adatte per trovare forme di vita attuali o per permettere lo sviluppo di forme di vita future, almeno per come la conosciamo sulla Terra (il grado di idoneità di un pianeta ad incubare la vita viene misurato dal Planetary Habitability Index, PHI –  Figura 3) [2].

E’ sensazionale la recente scoperta di un sistema multiplo di pianeti transitanti individuato attorno alla stella TRAPPIST-1. Il sistema è costituito da 7 esopianeti simili al nostro[3], orbitanti intorno alla stella Trappist-1 (TRAnsiting Planets and PlanetesImals Small Telescope–South)[4] nella costellazione dell’Acquario alla distanza di circa 39 anni luce dalla Terra[5]. Tutti i pianeti sono di tipo terrestre e tre sono situati nella fascia di abitabilità.

La stella Trappist-1 è una nana rossa, una stella molto piccola e “fredda”. Con i suoi 2.400° C ha una temperatura che è meno della metà di quella del nostro Sole e una massa pari all’8% del Sole. I sette pianeti scoperti, che al momento sono identificati come Trappist-1B, C, D, F, G ed H  (Figura 2), sono particolarmente vicini alla propria stella, per questo il periodo della loro rivoluzione è breve e mostrano sempre la stessa parte della loro superficie a Trappist-1. I pianeti hanno una temperatura compresa tra 0° e 100° C. Quelli ritenuti più adatti a ospitare la vita sono Trappist -1E, F e G. Trappist-1 è molto giovane: 500 milioni di anni, a fronte dei circa 4,6 miliardi di anni del Sole. Gli scienziati sono dell’opinione che i sette pianeti si siano formati in altre aree dello spazio e solo in un secondo momento si sono trasferiti intorno alla stella.

La scoperta di questo sistema multiplo di pianeti e’ straordinaria sia perché e’ il primo sistema contenente pianeti di tipo terrestre nella fascia di abitabilità e sia perché tre dei sette pianeti del sistema sono soggetti a livelli di irraggiamento da parte della stella centrale simili a quelli che Venere, la Terra e Marte ricevono dal nostro Sole, e, ove venisse confermata la presenza di un’atmosfera di tipo terrestre, potrebbero avere oceani sulla superficie. Inoltre, la bassissima luminosità e le dimensioni paragonabili al nostro Giove rendono gli eventi di transito dei pianeti in fascia abitabile frequenti e facili da rivelare, aprendo la possibilità della caratterizzazione dettagliata delle loro proprietà atmosferiche alla ricerca di biomarcatori. È probabile che con la prossima generazione di telescopi, come l’European Extremely Large Telescope dell’ESO e il James Webb Telescope di NASA/ESA/CSA, si avrà la possibilità di cercare l’acqua e persino l’evidenza di vita su questi pianeti.

Alla luce delle recenti scoperte, si può realisticamente presupporre l’esistenza di milioni di pianeti nella nostra galassia potenzialmente idonei ad ospitare forme di vita. Ma quali forme può assumere la vita su tali pianeti? La risposta è solo apparentemente semplice e banale e parte innanzitutto dal postulato di assumere che lo sviluppo della vita rappresenti l’evoluzione naturale della materia ove specifiche condizioni fisiche e chimiche dell’ambiente circostante, lo consentano. Partendo da tale presupposto, sono del parere che lo studio della biologia della Terra ci possa dare una buona indicazione di quali forme di vita potremmo trovare nella galassia. Infatti, nei luoghi con caratteristiche più estreme del nostro pianeta proliferano microorganismi che vivono in ambienti paragonabili alle realtà ambientali presenti sui pianeti “earth – like”.

Una ragionevole estrapolazione di come potrebbe essere la vita in altri ambienti, ci porta pertanto a immaginare forme di vita basate sul carbonio e sull’acqua, come sulla Terra, ma con diverse proprietà a livello molecolare e genetico. Non possiamo escludere che in ambienti particolari, privi di acqua e carbonio, possano svilupparsi forme di vita basate su un diverso solvente e un diverso elemento chimico. Tuttavia le innumerevoli variabili che sottendono all’evoluzione di forme di vita rendono estremamente difficile la possibilità che una forma di vita aliena possa somigliare minimamente a noi.  In conclusione, qualora trovassimo forme di vita al di fuori della Terra, potrebbero non essere quello che ci aspettiamo che siano, ma avremo la conferma che la vita è una realtà naturale nell’evoluzione dell’universo che ci unisce nella diversità

Articolo tratto dal tema proposto da Flavio Salvati al concorso per il Premio Schiaparelli 2016-17

Note

[1]    La zona intorno ad una stella in cui tutti e tre i requisiti sono verificati, è detta “goldilocks zone”, usato come metafora dalla fiaba “riccioli d’oro e i tre orsi” dalla scena emblematica i cui la ragazza sceglie tre zuppe differenti, trovando infine quella “appena perfetta”. “This porridge is too hot,” Goldilocks exclaimed. So she tasted the porridge from the second bowl. “This porridge is too cold.”So she tasted the last bowl of porridge.”Ahhh, this porridge is just right!” she said happily. And she ate it all up.

[2]     Questo indice si basa  sui quattro ingredienti necessari che devono essere presenti su un corpo planetario affinché possano avvenire reazioni fisiche e biologiche: energie superficiali, energia ricevuta, chimica e presenza di liquidi (a prescindere dal tipo di liquido).

[3]     Misurati sulla base dell’Earth Similariry Index (ESI) – l’indice di similarità terrestre. Generalmente, pianeti molto freddi o molto caldi hanno un ESI compreso tra 0.5 e 0.65 e eventuali forme di vita saranno estremofile o batteriche; per valori di ESI  tendenti a 0.75 saranno presenti forme di vita sempre più complesse per arrivare con valori di ESI uguali o maggiori di 0.80 a condizioni di temperatura simile a quella terrestre e idonee allo sviluppo di forme di vita più complesse.

[4]     L’assonanza del nome della stella Trappist e quello della nota birra belga non è casuale:  TRAPPIST è proprio un nome ideato da un gruppo di astronomi belgi nel 2010, che vollero così omaggiare una delle tipologie di birra più diffuse, la Trappist appunto.

[5]     A fare questa scoperta il team di astronomi ospitato dalla Nasa e guidato da Michaell Gillon dell’Institut d’Astrophysique et Géophysique dell’Università di Liegi in Belgio. Il telescopio da cui è stato possibile effettuare l’osservazione (TRAnsiting Planets and PlanetesImals Small Telescope south) si trova in Cile, nel deserto dell’Atacama, dove ha sede l’osservatorio dell’Eso

Figure

1 a e 1b: Trappist-1B, 1C, 1D, 1E, 1F, 1G, 1H

2: Planetary Habitability Index

 

Tra a

Tra b

Tra 3