Annalisa Corrado è ingegnere meccanico, scrittrice, ecologista e attivista per i diritti umani, con uno sguardo al futuro del tutto particolare. Quale? Scopriamolo in questa intervista

di Giulia Nenne Athie

 

In occasione dell’uscita del nuovo libro di Annalisa Corrado “Le ragazze salveranno il mondo” (ovvero “Da Rachel Carson a Greta Thunberg: un secolo di lotta per la difesa dell’ambiente”), edito – anche in formato elettronico – da People (peoplepub.it), la scrittrice ha risposto ad alcune domande e riflessioni sul suo libro.

 

Qual è stato l’evento che le ha fatto capire la stretta correlazione tra femminismo ed ecologismo?

Non posso dire che sia stato un solo evento, in realtà. Non è stata un’illuminazione improvvisa, piuttosto una constatazione esperienziale che è cresciuta anno dopo anno, fino ad essermi piuttosto chiara.

Sono un’ecologista per scelte formative e professionali, mentre per me il femminismo è subentrato molto più tardi, nella constatazione sempre più chiara di quanto il nostro paese sia pervaso di una cultura profondamente maschilista e spesso misogina e di quanto la strada per le donne sia costellata di ostacoli e trappole, che rendono la parità di opportunità un obiettivo ancora troppo lontano dall’essere raggiunto.

Basti pensare allo squilibrio di remunerazione a parità di mansione, all’assenza di donne nei ruoli apicali di istituzioni e aziende (quando invece in uscita dai percorsi formativi di alto livello la presenza di donne è addirittura predominante), al numero di femminicidi a cui assistiamo giorno dopo giorno. 

A un certo punto della vita mi sono accorta che le grandi escluse dalla società, con tutti i fallimenti che ne derivano, fossero proprio ecologia e donne, relegati spesso dalla politica a mero capitolo e mai, invece, a chiave strategica per la creazione di un tanto necessario quanto radicale cambiamento. 

L’ecologia ha bisogno di uno sguardo sistemico e di strategie a lungo termine, che non si lascino ingannare da obiettivi immediati ma fallimentari, che non mettano al centro il proprio ego o la propria forza “muscolare”, che non calpestino nessuno. 

Lo sguardo delle donne, relegate per secoli alla dimensione sociale della “cura” (ma solo della casa e della comunità, non certo dell’intera società, di un territorio o di una nazione), si è a lungo esercitato proprio su questo, facendo di empatia e intelligenza relazionale una attitudine importante, che si manifesta pienamente e diviene fondamentale per un rapporto sano e non predatorio con l’ecosistema e tra persone.

 

Il patriarcato vige supremo nella nostra società tanto che si parla di misoginia internalizzata: quando ha preso coscienza di questa realtà, e secondo lei come si può combattere?

Ne ho preso coscienza ai tempi dell’università, avendo scelto un percorso considerato (erroneamente, ovviamente) “da maschi”, come quello dell’ingegneria meccanica. 

Eravamo poche e a volte osservate come oggetti anomali, come maschi mancati (tanto da essere messe a parte di discorsi avvilenti sulle donne, quasi come se non fossimo lì presenti) o, forse peggio, come suppellettili graziose con cui eventualmente flirtare all’occorrenza.

I pregiudizi e gli stereotipi sono poi deflagrati nel mondo del lavoro, quando mi sono resa conto che i maschi fossero tutti chiamati “dottore” o “ingegnere” (magari senza averne le qualifiche), e noi “signorina” o al massimo, dottoressa e, comunque, sempre sistematicamente scambiate per “sottoposte” dell’eventuale maschio presente.

Abbiamo un enorme problema culturale da combattere e dalla cultura bisogna partire per cambiare le cose. 

Uno dei nemici più subdoli sono gli stereotipi. Basti pensare ai giochi “da femmina” (tutti mirati a far crescere creature, farsi belle e prendersi cura della casa) e a quelli “da maschi” (di esplorazione, ingegno, potenza…); a espressioni come “maschiaccio” o “femminuccia” (usato come un insulto per maschi che mostrino emotività, cosa che per altro sarebbe molto sana); a differenze di percezioni odiose, tuttora persistenti, anche rispetto alle relazioni affettive (uomo espansivo “cacciatore”, donna espansiva… lasciamo stare).

Si parte, insomma, proprio dal linguaggio. Insisto sempre molto, ad esempio, per farmi chiamare “ingegnera” invece che ingegnere, suscitando spesso ilarità o stupore e sentendomi rispondere che “non esiste” o che “suona male”. Faccio presente che ha la stessa identica conformazione delle parole infermiera, cameriera, portiera… che evidentemente non suonano male solo perché sono parole che ci siamo abituati ad usare.

Se non c’è nemmeno una declinazione femminile per una professione o per un titolo, perché una bambina dovrebbe sentirsi portata ad occupare quella posizione con naturalezza?

 

Quando una donna è in una posizione di potere si suole denigrarla sul piano emotivo e personale… può approfondire questo punto?

Ogni capitolo del libro inizia con una raffica di insulti beceri e bassissimi alle donne meravigliose che racconto. 

L’idea che volevo trasmettere è proprio questa: una donna che prende parola non si contesta sul piano dei contenuti, come si farebbe o si fa con i portatori “maschi” di visione o di proposte. Una donna che prende parola (e soprattutto che prende spazio o visibilità) diviene immediatamente oggetto di tentativo di annichilimento come essere umano, come persona. 

Il fatto che abbia osato emergere autonomamente è già, di per sè, un’anomalia che va punita: deve essere denigrata, magari per le caratteristiche fisiche o perché se ne mette in dubbio la moralità. Gli attacchi vengono immediatamente spostati dal piano del contenuto a quello umano, basta vedere cosa accade quotidianamente sui social network e quali siano gli insulti ricorrenti che vengono indirizzati alle donne, qualsiasi donna (che piaccia o che non piaccia, basta poco per rendersene conto).

 

Come ci racconta lei sulla copertina della rivista in cui Farm Chemicals parla del dibattito con Rachel Carson viene rappresentata una strega che vola in lontananza. Dalle streghe del medioevo a Baba Yaga non si accetta che una donna sia in una posizione di potere o acculturata senza che questa sia malvagia o soprannaturale. Come secondo lei possiamo liberarci di questa condizione e come questa ancora oggi è presente nella nostra vita?

Possiamo liberarcene innanzitutto cercando di non essere vittime noi stesse di queste credenze. Sembra assurdo dirlo, ma ognuna di noi cresce in una società profondamente malata e sbilanciata e, per quanto possa aver avuto la fortuna di crescere in famiglie evolute e/o di acquisire consapevolezza di sè e lucidità, dovrà molto probabilmente scontrarsi con un indefinito e indefinibile senso di inadeguatezza che non ha in realtà alcuna ragione d’essere, se non una presunta e impossibile perfezione a cui dovremmo aspirare (sempre, ovviamente, definita da sguardi maschili).

Ci dicono che “le donne non sanno fare squadra” (altro stereotipo!), e noi invece facciamola, in modo sano, collaborativo, senza “competizione tossica e muscolare”, ma con empatia e capacità di ascolto (anche con i maschi ovviamente!). 

Scegliamo luoghi, relazioni e situazioni che liberino e sostengano il nostro potenziale e non che lo schiaccino o deformino. Facciamo rete, sosteniamoci con generosità a vicenda. Nessuna e nessuno si salva da solo.

 

Il patriarcato e il capitalismo si affiancano da anni: quale potrebbe essere un’ alternativa secondo lei?

La rivoluzione ecologista di cui parlo nel libro. Quella definita così bene dagli “obiettivi per lo sviluppo sostenibile al 2030” della agenda delle Nazioni Unite. Una rivoluzione che metta al centro lotta alle diseguaglianze, contrasto al cambiamento climatico e alla crisi ecosistemica che stiamo vivendo (Covid 19 compreso), salubrità dei territori e salute, universale, delle persone.

Non è una chimera, non è affatto impossibile, anzi! Ormai esistono tecnologie affidabili e innovazioni impensabili fino a qualche anno fa, che ci consentirebbero in un lasso di tempo relativamente breve (entro il 2050) di abbandonare le energie fossili, di ripensare tutto il nostro sistema industriale in chiave circolare e sostenbile, di costruire società inclusive e resilienti, ossia in grado di rispondere alle crisi in maniera più solida e sicura.

Il benessere costruito, tanto economico quanto sociale, sarebbe molto maggiore e molto più distribuito. Ma il punto è proprio questo: i pochi/pochissimi che detengono potere e risorse non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai loro privilegi e cercano di allontanare il più possibile nel tempo il momento in cui tutto ciò accadrà, incuranti delle conseguenze di questo ritardo.

Proprio per questo è fondamentale che le mobilitazioni che abbiamo visto nascere e crescere in questi anni non si disperdano e non scompaiano. Dobbiamo pretendere, assieme, un futuro diverso, che non abbia nulla a che vedere con una “normalità” che ci ha portato in un luogo tutt’altro che sicuro.

 

Nel caso di Wangari Maathai attraverso l’ecologia l’attivista ha contribuito all’emancipazione femminile. Secondo lei si può trovare una maniera di applicare tale logica anche nel mondo occidentale dove il capitalismo sembra più radicalizzato, ovvero ricreare comunità ed indipendenza attraverso il contatto con la terra?

A mio avviso il lavoro da fare è quello di mostrare le connessioni tra i grandi squilibri di cui stiamo parlando e i problemi di ogni giorno, proprio come ha fatto Wangari Maathai, che non ha spiegato complesse teorie, ma ha portato soluzioni.

Troppo spesso si pensa che di ecologia si possa permettere di occuparsi solo chi “può arrivare serenamente a fine mese”, mentre è esattamente il contrario. Se non si arriva a fine mese, se non si trova lavoro, se il lavoro c’è ma è disumano e non remunerativo, è perché economia e società si sono costruite attorno a priorità sbagliate. 

Se vogliamo davvero cambiare le cose dobbiamo risalire alle radici dei problemi e fornire soluzioni. 

Dobbiamo saper raccontare che l’ecologia ci restituisce città più sicure e più vivibili, società più eque, posti di lavoro più stabili, territori più sani, economie più competitive e resilienti… Dobbiamo associare il cambiamento climatico a quello che mangiamo ogni giorno, al modo in cui ci vestiamo o al voto che esprimiamo nell’urna.

Non tutti possono sperimentare il contatto con la terra (magari fosse possibile!), ma tutti hanno una quotidianità fatta spesso di mille problemi e di mille affanni. Bisogna mettere le persone nelle condizioni di “unire i puntini” e di capire chi è il “nemico” vero.  Solo così avremo modo di generare il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

 

In alcuni testi da lei citati si capisce che già quaranta anni fa alcune aziende petrolifere sapevano quali sarebbero stati gli effetti delle loro azioni e nonostante questo non hanno cambiato i loro piani.  Come possiamo noi renderci conto che “il re è nudo”? Secondo lei esigendo trasparenza da parte delle maggiori case petrolifere si potrebbe creare un’ondata di richieste di giustizia sociale e una diminuzione delle emissioni?

Dalle case petrolifere penso occorra pretendere piani di transizioni credibili e profondi, che non si nutrano di “green-washing”, ma che cambino in pochi anni strategie industriali e cavalchino la conversione verso le energie rinnovabili. Assistiamo troppo spesso a operazioni estremamente superficiali che puntano solo ad allungare il periodo in cui mantenere posizioni di privilegio e di potere acquisiti.

Le risorse che arriveranno per la crisi economica legata alla pandemia del Covid saranno cruciali per garantire la transizione. Non possiamo permettere che vengano spesi nella direzione sbagliata. Non abbiamo più tempo da perdere.

 

Si parla molto di green economy: è questa una maniera di sembrare più etici ai consumatori evitando quindi di perdere il proprio commercio o una via verso la sostenibilità?

La green economy è certamente una via verso la sostenibilità ed è un percorso da intraprendere in maniera molto seria. Il resto è green-washing che fa leva su una maggiore sensibilità dei consumatori, prendendoli però in giro con soluzioni solo apparentemente diverse da quelle precedenti. Occorre fare molta attenzione e documentarsi per divenire persone capaci di avere un approccio critico, diffidando di soluzioni apparentemente miracolose.

Siamo tutti imbevuti di consumismo, dobbiamo imparare a “votare con il portafoglio” privilegiando quelle economie che garantiscano sostenibilità e equità, riducendo sprechi e acquisti compulsivi.

 

La retorica della crescita infinita non è sostenibile: quando, secondo lei noi occidentali ce ne renderemo conto? E cosa potrebbe aiutarci ad agire contro questa falsa narrativa?

Bella domanda!!! Credo che la risposta vada costruita assieme. Sempre più persone se ne stanno rendendo conto, ma non siamo ancora abbastanza organizzati per poter fare la differenza.

Ci vuole un’alleanza mai vista fino ad ora, che sia intersezionale (dobbiamo riconoscere che, anche avendo a cuore battaglie diverse, stiamo in fondo combattendo uno stesso nemico) e intergenerazionale (Greta e Jane Fonda lo dimostrano chiaramente).

Non dobbiamo arrenderci, e possiamo mettere le nostre energie a servizio di questa causa in tantissimi modo diversi, ciascuno a seconda dei propri talenti e delle proprie passioni.

Serve innovazione, ricerca, serve amore per la terra e per la natura, serve cultura, formazione, servono una nuova visione e nuovi modi di comunicarla. Siamo tutti convocati… e la buona notizia è che “nessuno è troppo piccolo per fare la differenza”!